martedì 27 giugno 2023

Cronache Marziane

Se dovessi fare una sorta di classifica del libri di fantascienza a cui più sono legato, sia perché li considero capolavori nel loro genere o perché hanno rappresentato, nel momento in cui li ho letti, una sorpresa ed un piacere che altri libri non mi hanno dato, sarebbe stilata cosi:
Il ciclo  del Fiume della vita di Philip José Farmer,
Il ciclo dei Robot ed il ciclo delle Fondazioni di Isaac Asimov,
Straniero in terra straniera di Robert Henlein
Il ciclo di Ambra di Roger Zelazny,
Solo il mimo canta al limitare del bosco e l'uomo che cadde sulla terra di Walter Tevis
Un cantico per Leibowizt di Walter Miller
Fiori per Algernon di Daniel Keynes
Hyperion di Dan Simmons
ma, indiscutibilmente, al primo posto di questa ipotetica classifica (nella quale va inserito anche Farenhait 415 di Bradbury)  vi sarebbe Cronache Marziane di Ray Bradbury che campeggerebbe tra i primi posti anche in 
una mia classifica di libri di letteratura in generale. 
Scritto nel 1950, è formato da tanti racconti che parlano della conquista di Marte da parte della terra e riguardano un periodo che va dal 1999 al 2026. 
Sono racconti di una pagina o di più ampio respiro ma in ognuno di loro rispecchia la grandezza di uno scrittore che ha la poesia nelle sue corde ed ogni volta è un piacere leggerlo o rileggerlo. 

Ecco l'incipit:

Cronache Marziane
di Ray Bradbury

L'estate del razzo
Fino all'istante prima era ancora l'inverno dell'Ohio, le porte chiuse, i vetri alle finestre ricoperti di brina, stalattiti di ghiaccio a frangia d'ogni tetto, bimbi che scavano sui pendii, massaie dondolanti come grandi orsi neri nelle loro pellicce sulle vie gelate. 
E a un tratto una lunga onda tiepida era passata sulla cittadina. Una marea d'aria calda, quasi che qualcuno avesse lasciato aperta la porta d'una panetteria. 
Il calore pulsava tra le casette, i cespugli, i ragazzi.  Le stalattiti di ghiaccio si staccavano, rovinose, e, in frantumi, si scioglievano rapidamente.
Le porte si spalancano. I vetri delle finestre si alzavano impetuosi. I ragazzi buttavano via gli indumenti di lana. Le massaie si spogliavano delle loro pelli d'orso. La neve si scioglieva a mostrare la verde antica prateria dell'ultima estate.
L'estate del razzo. Le parole passavano di bocca in bocca nelle case aperte, ben areate. L'estate del razzo. La calda aria del deserto che mutava i ghirigori di ghiaccio sulle finestre, cancellava l'opera d'arte. Sci e slitte improvvisamente inutili. 
La neve, nel cadere dal cielo freddo sul villaggio, si trasformava in una pioggia torrida ancor prima di toccare il suolo. 
L'estate del razzo. La gente si sporgeva di sotto le verande gocciolanti a spiare il cielo che si arrossava.
Il razzo stava sul campo di lancio, eruttando rosee nubi di fuoco rovente. 
Il razzo si levava nella fredda mattina invernale e creava l'estate a ogni respiro dei suoi possenti augelli di scarico. 
Il razzo faceva i climi, le stagioni, e l'estate per un breve istante sopra la terra. 

Traduzione di Giorgio Monicelli





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